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Seduta del 30 novembre 2009 ore 18.00 Commemorazione di Vittorio Foa. CASTRONOVO Giuseppe (Presidente) Buongiorno a tutti e grazie di essere qui con noi per commemorare un grande uomo. Saluto la signora Tatò, la sua compagna, le Autorità militari, l'Assessore Provinciale Carlo Chiama, l'Onorevole Pietro Marcenaro e tutti quanti voi, Consiglieri Comunali, Autorità e amici. Vittorio Foa - non è facile capire - è un uomo che fa politica e non ha interesse per il potere, che fa il sindacalista essendo fino al midollo uomo di élite intellettuale; egli è fatto di tre cose contraddittorie, che riescono a coesistere solo in personaggi di eccezione: è uno che vive la politica come esperienza intellettuale, è un moralista ed è un maestro. Basterebbero, forse, queste parole di Giorgio Bocca per definirlo; io, però, provo a tratteggiarne velocemente la figura: grande torinese, uomo di immensa cultura e grande passione politica, formò la propria coscienza civica nella nostra città (prima, al Liceo D'Azeglio e, poi, alla Facoltà di Giurisprudenza). Nel 1933, entrò a far parte del movimento antifascista Giustizia e Libertà, venne arrestato e condannato a quindici anni di carcere; fu liberato nel 1943, dopo otto anni di reclusione, e immediatamente decise di collaborare con le forze della Resistenza. Fu uno dei padri della nostra Costituzione, Deputato e Senatore dell'Italia repubblicana. Ricoprì ruoli di primo piano nella CGIL, divenne giornalista, professore nelle Università di Modena, Reggio Emilia e Torino. Fu eletto Consigliere Comunale a Torino nel 1951, ma dovette rinunciare all'incarico per incompatibilità, poiché, in quello stesso anno, era stato eletto anche il suocero Michele Giua, ma la Città volle ribadirgli la propria stima conferendogli il più alto riconoscimento, la Cittadinanza Onoraria. Aderì al Partito Socialista Italiano, poi allo PSIUP, al PdUP e, quindi, a Democrazia Proletaria Nuova Sinistra Unita - dove io ebbi il piacere e l'onore di conoscerlo personalmente -, per, poi, essere eletto Senatore indipendente nelle liste del PCI. Spostamenti mai motivati da vantaggi personali, ma per cercare, come lui stesso dichiarò, la verità in modo trasversale, al di là degli steccati. Vittorio Foa, infatti, non era l'uomo dell'apparire, della forma, del conformismo; era l'uomo dell'essere, della sostanza, l'intellettuale capace di essere, da un lato, concreto e coerente con i suoi ideali di libertà e democrazia, per i quali era disposto a sopportare sofferenze (come il carcere), ma, dall'altro, capace anche di andare controcorrente, di fare scelte scomode per difendere la sua autonomia rispetto ai grandi partiti politici di massa. C'è chi lo ha definito un buon maestro. Lo credo anch'io. Vittorio Foa fu, allora - ed è ancora per me, come per tanti -, un buon maestro, per la passione con cui ha portato avanti il suo impegno in politica e nell'attività sindacale e per la forza con la quale ha saputo difendere i valori in cui ha sempre creduto. Ci sono poche parole, che pronunciò in un'intervista, che possono concludere questo mio breve ricordo, perché rappresentano un po' il bilancio della sua vita, che condivido nella maniera più assoluta; "Penso a questo secolo: non finisce mai, tutto si ripete a non finire; c'erano una volta delle belle ideologie e sono venute meno, come facciamo? - e la sua risposta fu semplicissima, ma complessa - Se, invece di piangere come orfanelli, criticassimo sul serio quelle che non erano ideologie ma semplici frivolezze, potremmo finalmente entrare nel futuro e dare un senso anche al nostro passato". Io credo che questo sia stato Vittorio Foa, credo che lo sia ancora e spero di poter vivere abbastanza per poter, in qualche modo, testimoniare anche quello che fu e come agì nella politica nel nostro Paese. La parola all'Onorevole Pietro Marcenaro. MARCENARO Pietro Grazie, signor Presidente del Consiglio Comunale di Torino, signor Sindaco, signori Consiglieri, grazie a Sesa e ad Anna Foa, che sono qui con noi, e ai tanti amici che sono qui per questo ricordo. Non si può pensare a Vittorio Foa e non si può provare a conoscerlo senza pensare a Torino, che ha segnato tutta la sua vita. Naturalmente, in questi giorni, chi cammini per i portici di Via Po o vada a vedere all'Archivio di Stato la mostra per il centenario di Bobbio, troverà una parte di questa storia, una parte di questa formazione, quella che ha ruotato intorno al Liceo D'Azeglio e alla formazione di quel nucleo antifascista. Ma c'è un'altra storia e ci sono anche tanti altri episodi che Vittorio ha raccontato nei suoi libri o, semplicemente, nelle conversazioni con gli amici, di una Torino in cui si è formata la sua esperienza. Credo che il primo ricordo di Vittorio fosse quello di una tata austriaca costretta ad andare via nel 1915 allo scoppio della guerra; poi, se ricordo bene, pochi anni dopo, l'incontro a Bardonecchia, insieme al padre, con Giovanni Giolitti e tante altre cose che danno l'idea di un mondo così diverso da quello in cui, oggi, viviamo: di un ragazzo che interrompe gli studi per fare il contabile in una banca a Parigi, che ritorna e che diventa ufficiale al seguito del Principe ereditario e che, quindi, partecipa in qualche modo alla vita di Corte, fino a cose che ci sembrano veramente appartenere non ad un altro secolo, ma a tanto tempo fa. Io ricordo quando Vittorio venne qui ad insegnare all'Università e andò ad abitare in Via San Pio V, salì quelle scale e disse: "Ma io qui ci sono già stato", perché, nel 1931 o nel 1932, salì queste scale con Carlo Zini per recapitare al pittore Casorati una lettera di sfida a duello da parte di Franco Antonicelli per una questione che riguardava una signora - di cui, ormai, possiamo anche fare il nome -, Giorgina Lattes, di cui entrambi erano innamorati. Quindi, quando il Presidente Castronovo ha parlato di un uomo che veniva dall'élite della città, ha detto una cosa che, secondo me, corrisponde esattamente ad una storia, ad una realtà. E, poi, Torino è stata anche una città - io di questo sono convinto e l'ho già detto in un'altra circostanza - importante nel carcere, durante il carcere e durante l'antifascismo; naturalmente, un po' scherzando, ho detto: "I fascisti pensavano di tenere Vittorio chiuso, prima, a Regina Coeli, poi a Civitavecchia e a Castelfranco Emilia", ma, in realtà, basta leggere le lettere della giovinezza per capire che gran parte del suo tempo lo passava a Torino (nelle corrispondenze con i familiari e con le molte persone con cui manteneva, attraverso questa via, un rapporto, un legame). E, poi, la Torino dell'antifascismo, della lotta di Liberazione, dell'impegno. E poi, Torino come il punto fondamentale della sua esperienza e del suo lavoro sindacale, che ha tanta parte della sua storia e della sua formazione. Per Vittorio Foa, così come per Bruno Trentin, Torino era quella che in inglese si chiamerebbe "constituency": era il suo punto di riferimento, era la città, le fabbriche, il mondo del lavoro, i gruppi dirigenti del Sindacato ai quali pensava, con i quali si confrontava, con i quali discuteva, era il punto principale dal quale nasceva la sua elaborazione. E questa è una lunga storia; almeno dalla fine degli anni Quaranta, attraverso varie tappe che passano per la sconfitta alla FIAT e l'autocritica di Vittorio nel 1955, la partecipazione alla Segreteria della FIOM, i rapporti con i gruppi dirigenti torinesi (con Sergio Garavini, Tino Pace, Emilio Pugno e tanti altri), fino all'esperienza del rapporto con i Quaderni Rossi e alla partecipazione a quel tipo di elaborazione, anche qui Torino segna profondamente questa esperienza. Infine, l'ultimo punto che voglio semplicemente ricordare, prima di provare a vedere alcuni di quelli che, secondo me, sono i nodi fondamentali di un pensiero e di una storia, è la Torino della vecchiaia. La Torino della vecchiaia è stata, al tempo stesso, luogo del silenzio per tanti anni; è stato uno dei luoghi del silenzio quando Vittorio scelse questo silenzio rispetto all'esterno, ma era un silenzio che era intessuto quotidianamente, ogni minuto, di conversazioni, di ascolto, di ricerca e di elaborazione; un silenzio come partecipazione. E poi, naturalmente, adesso non parlerò qui della Torino di Vittorio intesa come la Torino delle montagne, di Cogne, della Valle d'Aosta, dei luoghi dove si recuperavano energie fisiche, morali, intellettuali; però, si potrebbe scavare e lavorare su questi filoni dell'esperienza della vita di Vittorio Foa. Se dovessi dire e provare a fissare alcuni punti del pensiero di Vittorio che, ancora oggi, ci spingono ad una riflessione, partirei da questo: il fatto che Vittorio è una persona che, di fronte alle realtà e ai problemi, non ha mai pensato che potesse esistere una sola possibilità, un'unica soluzione; non c'è mai un solo sguardo con il quale avvicinarsi alle cose, c'è sempre un altro lato delle cose che bisogna cercare, un lato che normalmente la retorica - con il suo adagiarsi sugli stereotipi - tende a nascondere e non ci fa vedere. Franco Ramella nel libro "Terra e telai" interpreta i regolamenti delle fabbriche tessili nel biellese alla fine dell'Ottocento non come il segno dell'oppressione, ma come il documento delle libertà delle persone; è proprio uno di questi modi di guardare le cose con un altro sguardo. In questo senso, espressioni che Vittorio ha molto usato (il "paion traversie e sono opportunità", oppure il ricorso all'ideogramma cinese della parola "crisi" che vuol dire diverse cose) erano una cosa profonda. Molti, ogni tanto, citano la "mossa del cavallo"; ma la "mossa del cavallo", un'espressione di Vittorio, non è una furbizia tattica, non è un escamotage politicantesco; è il risultato della libertà della mente, è il risultato di uno sguardo ed una capacità di interpretazione che riesce ad evitare le ripetizioni, le repliche, gli schemi già conosciuti e che prova a misurarsi in questo modo, in un'idea in cui questa pluralità di possibilità regge e può diventare così importante, perché, naturalmente, ha un fortissimo ancoraggio morale, di una moralità che, in tutta la vita di Vittorio, non ha mai bisogno di essere proclamata, non ha mai bisogno di essere rivendicata, non ha mai bisogno di essere detta; vive semplicemente nella semplicità della sua pratica, della sua vita. Questa immensa possibilità della mente di guardare e di non farsi imprigionare è accompagnata, a mio parere - a me sembra di aver capito questo nel corso di questi anni -, anche da una consapevolezza della possibilità limitata della nostra azione: fai quel che devi, succeda quel che può. Secondo me, è un altro punto di un pensiero che mette a fondamento la responsabilità personale. Ed è dentro questo discorso e questa idea che Vittorio considera con assoluta ostilità il concetto di transizione come un concetto o una categoria politica teorica che, sostanzialmente, fa diventare il futuro il "dopo"; invece per Vittorio il futuro non è "dopo", vive nel presente, ne orienta e ne connota l'azione e questa mi pare una cosa molto importante, perché, in questo senso, le situazioni non sono mai chiuse: anche nelle situazioni più difficili, c'è una possibilità. In questo gioca molto, a mio parere, la sua esperienza sindacale. Penso in particolare ad uno dei punti essenziali di quell'esperienza, quella che si svolge intorno alla metà degli anni Cinquanta e, poi, all'inizio degli anni Sessanta e che ha come epicentro Torino, quando, invece che continuare a ripetere la denuncia della repressione e del carattere dispotico del modello vallettiano alla FIAT, ci si rende conto che queste denunce sono destinate a rimanere sterili se non si guarda oltre, se non si guarda alle nuove generazioni che entrano nel mondo del lavoro e se non ci si sposta dalla pur sacrosanta difesa dei comunisti, dei socialisti, della CGIL oggetto della repressione ai diritti e alle condizioni dei nuovi operai, per scommettere su di loro. Questo è un punto fondamentale e in questa cultura affonda le radici un altro dei capisaldi politico-culturali di Vittorio: l'unità sindacale come cultura, non semplicemente come scelta politica. Questo è un punto fermo nel pensiero di Vittorio, un punto che non è cambiato fino agli ultimi giorni. Sesa lo ha ricordato un po' di tempo fa: mi sembra che, poche settimane prima di morire, Vittorio avesse invitato i tre Segretari Generali di CGIL, CISL e UIL a prendere un caffè con lui nel giorno del suo compleanno. Questo è un punto irrinunciabile per chi pensa al Sindacato come una costruzione dei lavoratori. L'unità non è una cosa che viene da fuori, da esigenze politiche; l'unità è la condizione perché il Sindacato siano i lavoratori che si mettono insieme per costruire e per affrontare insieme i loro problemi; quindi, è una condizione per l'azione e nessun compromesso è troppo grande per raggiungerlo. A me, francamente, viene da sorridere quando, oggi, sento dire che sono troppo grandi le distanze fra i Sindacati e penso a uomini come Foa, Pugno o Garavini, che cercarono l'accordo con il SIDA di allora, pur di costruire le condizioni per l'azione sindacale e per l'unità delle persone. Penso che questo sia un altro punto molto importante. Probabilmente, sto procedendo un po' per punti e mi scuso se il mio discorso non ha un carattere organico. Di questo sguardo libero, come sapete se avete letto le lettere della giovinezza, l'esperienza del carcere è una testimonianza formidabile: vivere in carcere come uomini liberi, anzi, considerarsi i più liberi. Anche questo è un punto che, secondo me, ha un grande valore, non solo morale, ma culturale e politico: questa esperienza così dura (rimanere chiuso in carcere per nove anni), che tutti giudichiamo come una cosa difficile per un giovane uomo di 24-25 anni, viene vissuta senza il minimo segno di vittimismo. Ricordo il senso di fastidio che Vittorio manifestava per le lamentele sulla propria condizione di detenuti che venivano da quei terroristi che erano in carcere e continuavano a dichiararsi prigionieri politici. Sono sicuro che Vittorio avesse ben chiara la differenza fondamentale fra stare in carcere sapendo di essere dalla parte della ragione e stare in carcere sapendo di essere dalla parte del torto, perché questo cambia qualitativamente quell'esperienza e ne connota il senso in modo molto diverso. Un altro grande punto che riguarda Vittorio, e che sarebbe da approfondire, è il suo rapporto con i giovani, che aveva alla base una insaziabile curiosità, ma che era reso possibile e, addirittura, era reso facile dal fatto che Vittorio riusciva, anche intellettualmente, oltre che dal punto di vista pratico, a vivere questi rapporti con i più giovani come rapporti paritari. Non ha mai pensato che il rapporto fra un vecchio ed un giovane fosse un rapporto fra il più e il meno, che ci fosse, in qualche modo, una gerarchia, perché pensava che un giovane aveva semplicemente delle conoscenze diverse da quelle di un vecchio, che, però, potevano confrontarsi alla pari; questo spiega tantissime cose. Vorrei dire ancora alcune cose sul cosiddetto ottimismo di Vittorio. Piuttosto, io parlerei di una fiducia profonda nelle persone, nella loro autonomia e nella loro incancellabile libertà. In fondo, il pensiero di Vittorio è che la politica non crea, forse neanche Dio crea; la politica guarda e cerca di cogliere le cose che si muovono nella società, cerca di sostenerne alcune e di contrastarne altre, e su questo cerca di costruire dei progetti e di sostenere le esperienze di libertà e di autonomia. Mi pare di avere capito ed imparato questo: senza avere fiducia nelle persone è difficile pensare alla democrazia e ad un'idea di partecipazione, affinché tutto questo diventi possibile. Forse, quella dell'autonomia è una delle categorie fondamentali del pensiero di Foa. Essa assumerà - adesso, non c'è tempo per affrontare questo problema - nel tempo diversi connotati e diverse forme, ma rimarrà sempre un punto fondamentale del suo pensiero. Che si tratti della catena di montaggio nel lavoro più anonimo, più parcellizzato e più eterodiretto, che si tratti della sfera della formazione della coscienza esposta alla manipolazione dei media, ma, addirittura (come sosteneva nelle conversazioni con Primo Levi), che si tratti del lager, nel punto dove la persona è negata nel più profondo, l'autonomia ha come base l'idea che uno spazio irriducibile di autonomia e di possibilità di scelta esiste e nessun Moloch o Panopticon possono cancellarla interamente. Ritengo che questo sia il nucleo di un pensiero originario, che, poi, troverà conferma nel corso di una lunghissima vita, fatta di diverse esperienze: di fronte al fascismo, al carcere, nella lotta partigiana, nell'esperienza sindacale, nella ricchissima elaborazione politica e culturale della sua lunga vecchiaia. Per quanto riguarda l'autonomia (secondo me, con una storia e una posizione molto vicina a quella di Bruno Trentin), l'idea di Foa era che non ci fosse cosa da combattere maggiormente di una politica che si esprimesse come domanda di dipendenza, come ricerca di conformismo e come adesione acritica; per queste persone - o, almeno, per questa generazione e per Vittorio, in particolare - tutto questo era agli antipodi del loro pensiero. In questo punto, negli ultimi anni, Vittorio avvertiva che qualcosa di radicale si era rotto nell'esperienza politica, nell'esperienza della sinistra, nell'esperienza del movimento operaio e nell'esperienza democratica italiana. Vorrei terminare il mio intervento dicendo che - almeno questa è la mia opinione - non ci sono due Vittorio Foa: non c'è un Vittorio Foa radicale, dell'antifascismo, della Resistenza, della lotta sindacale e un altro Vittorio Foa, invece, moderato, della critica al referendum sulla scala mobile, del sostegno alla svolta del Partito Comunista del 1989, dell'appoggio a Valentino Castellani a Torino e dell'incoraggiamento a Fini quando a Fiuggi fece la svolta. Non so se conoscete la battuta che fece quando fu rimproverato da qualcuno che pensava che avesse fatto un cedimento sul piano dell'antifascismo; in quell'occasione, Vittorio disse: "Abbiate pazienza, ci sono diversi tipi possibili di antifascisti e io li rispetto tutti; ci sono quelli che per continuare ad essere antifascisti hanno bisogno di avere sempre i fascisti lì davanti e ci sono, invece, gli antifascisti come me, che vorrebbero che i fascisti non ci fossero più e, quando vedono qualcuno che si muove in questa direzione, provano a dargli una mano". Ha sostenuto la formazione del Partito Democratico perché pensava che ci fosse la possibilità di andare oltre i vecchi schemi ed i vecchi stereotipi. Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, Vittorio scelse un lungo periodo di silenzio, ma, come dicevo prima, si è trattato di una presa di distanza da un discorso pubblico, del quale vedeva vacillare molti punti di riferimento e in quel momento sentiva di muoversi in modo insicuro; sicuramente, non è stato un silenzio come presa di distanza dai problemi, dalla ricerca, dall'ascolto e dal dialogo. Anche di questa vecchiaia feconda, Torino è stata una parte importante, così come le montagne, dove ritornava per rinnovare le energie e riconfermare un legame che ha sempre sentito fortissimo. Torino è anche stata, fino all'ultimo, il simbolo di una questione irrisolta; forse, non so se siete d'accordo, dovrei dire la "questione irrisolta", cioè di come sia possibile pensare ad una sinistra (o, se vogliamo, semplicemente ad un progetto di emancipazione e di libertà) che non abbia nel lavoro e nei lavoratori - vecchi e nuovi - il suo radicamento culturale e sociale. È una domanda che Vittorio non ha mai smesso di ripetere. Sono sicuro che, così come fece in occasione dell'assegnazione della Cittadinanza Onoraria, Vittorio sarebbe riconoscente a tutti voi per l'affettuoso omaggio che, oggi, avete deciso di dedicargli. CASTRONOVO Giuseppe (Presidente) La parola al Sindaco. SINDACO Sono certo che sia impossibile trovare parole più appropriate, giuste, profonde e, se mi permettete, sentite di quelle di Pietro per ricordare Vittorio Foa, proprio per la lunga comunanza di lotta politica, sindacale, di frequentazione culturale e, poi, per l'amicizia, che è un valore un po' troppo dimenticato anche nelle relazioni politiche, ma che, giustamente, né Vittorio, né Pietro hanno mai dimenticato; questo aiuta anche la politica. Oltre - e lo faccio con grande piacere - a rinnovare il saluto e il ringraziamento a Sesa Tatò, ad Anna Foa, a tutti i parenti e agli amici per aver partecipato a questo incontro, vorrei ricordare tutti i rappresentanti delle Istituzioni, Carlo Chiama, i rappresentanti delle Forze Armate e i Carabinieri. Vorrei solo sottolineare alcune delle cose già dette da Pietro; soprattutto sull'ultima cosa che lui mi rilanciava, se me l'avesse detto prima mi sarei preparato, ma ci vorrebbe un po' di tempo e, forse, anche un luogo diverso per poterla approfondire. Vorrei, però, prendere spunto da questo per dire che Vittorio Foa è stato (e, non a caso, nel 1998 gli abbiamo voluto conferire la Cittadinanza Onoraria) un grande torinese ed un esponente di quell'anima culturale dell'antifascismo torinese che è stato l'azionismo, condito non soltanto di valori culturali (su cui, poi, tornerò rapidamente), ma anche di comportamenti. Ne cito uno, perché è un altro tema, secondo me, di straordinaria attualità: la sobrietà, che, oggi, in politica è un valore che, troppo spesso, viene messo da parte o, come dire, trasfigurato. Credo, invece, che se uno passa, come ricordava Pietro, in Via Po e vede le fotografie della mostra dedicata a Bobbio, in cui compare spesso Vittorio Foa, attraverso quelle persone, quegli uomini e le loro famiglie viene trasmessa un'immagine di serietà e di sobrietà, che, secondo me, rappresenta un valore ed un messaggio forte per la gente, che andrebbe recuperato. Questo è tutt'uno con quell'anima culturale dell'antifascismo torinese che è stato l'azionismo; si tratta di una cultura che, non a caso, è riuscita a radicare e a permeare così profondamente di sé la cultura materiale diffusa della nostra città da rappresentare, ancora oggi, un punto di riferimento e a far sì che in questa città, persino a prescindere da chi ha responsabilità di governo, alcuni valori non possano essere aggirati e messi da parte. Credo che di questo si debba rendere onore a Vittorio Foa e ai tanti altri (come Norberto Bobbio, Galante Garrone, ma non posso ricordarli tutti) che sono stati protagonisti di questo momento alto della cultura e della politica torinese. Ho ricordato l'aspetto comportamentale (che, secondo me, è un valore forte) della sobrietà e della serietà, ma voglio ricordare anche la legalità, cioè il rispetto delle regole. Che cosa c'è, oggi, di più necessario nella convivenza civile (di cui la politica è grande parte) che non lasciare passare messaggi secondo i quali le regole valgano solo per alcuni e non per altri? Ritengo che questo sia stato uno dei messaggi forti che veniva da quella corrente culturale, che, poi, ha irradiato e permeato di sé altre forze politiche, costruendo una cultura ed una politica. La laicità, intesa non come negazione del valore comportamentale e pubblico che ha la religiosità di ognuno di noi - per chi ce l'ha e qualunque essa sia -, ma come l'affermazione della politica come terreno che deve cercare una mediazione, un compromesso o, meglio, una sintesi, che rispetti la religiosità di tutti e che non consenta mai che una forma di religiosità prevalga e si imponga sulle altre. Questa è la laicità della politica, diversa dal laicismo e dal confessionalismo. La giustizia sociale mai disgiunta dalla libertà; questo, forse, è un altro tema su cui bisognerebbe ragionare, perché Pietro faceva riferimento ad un'idea di sinistra, ma, in questa fase, forse anche proficua, Vittorio potrebbe leggere anche l'altro lato di questa confusione attuale; diciamo che non c'è solo il nodo non risolto di una politica dalla parte dei più deboli, che possa fare a meno del lavoro, ma c'è anche questo aspetto di un'equità sociale che possa fare a meno della libertà. Questa è stata, non a caso, una delle questioni su cui, poi, spesso sono crollate delle costruzioni ideologiche e hanno trovato il loro limite la generosità e la nobiltà di tanti ideali. Ho voluto ricordare questi aspetti per dire quanto densi, profondi e pieni di futuro siano alcuni dei valori che sono stati i portatori delle esperienze di cui è stato protagonista Vittorio Foa. Li ho voluti ricordare perché alcuni rappresentano la cultura materiale diffusa della nostra città, che, per fortuna, ne è ancora permeata fortemente. Pietro citava "l'altro sguardo" e, pur avendo avuto, meno di te, la fortuna di poter avere qualche scambio di opinione con Vittorio Foa, partecipando anche a Formia ad una discussione, non ricordo esattamente in quale anno… (INTERVENTO FUORI MICROFONO). Tanto per fare pubblicità alla FIAT fino all'ultimo, naturalmente! Per quanto riguarda questo "altro sguardo", credo si possa dire che, in fondo, Vittorio Foa lo si è trovato non dove la maggioranza delle persone pensava di trovarlo. In particolare, nell'ultima fase della sua lunga e - come ha detto Pietro - proficua vecchiaia (è stato citato l'episodio di Fini, ma ce ne sarebbero tanti altri), credo che questa capacità di avere "un altro sguardo" e di osservare le cose nella loro complessità, cercando di vedere sempre che cosa c'è dietro ciò che appare, sia dovuto, oltre ad un suo incomprimibile senso e tensione verso la libertà di pensiero, anche ad una sua - ed è l'ultima cosa che voglio sottolineare - straordinaria capacità di approfondire la realtà; per questo motivo i suoi scritti e le sue interviste per me sono sempre state un riferimento irrinunciabile. Vittorio, quando c'erano gli anni duri alla FIAT, ad un certo punto ha detto: "Andiamo a vedere come sono le condizioni di lavoro, perché ci siano condizioni che permettano a certe politiche di passare". Questa sua capacità di fare della realtà e dell'analisi critica, con "l'altro sguardo" sulla realtà, il fondamento di ogni impalcatura e costruzione politica è stata, secondo me, la più grande forza che ha saputo esprimere e, per quel che mi riguarda, è l'elemento sul quale credo tutti noi dobbiamo ancora riflettere o, meglio, dobbiamo farne tesoro. Credo che sia una delle cose più preziose che ci ha lasciato il nostro concittadino Vittorio Foa. CASTRONOVO Giuseppe (Presidente) Dichiaro conclusa la cerimonia commemorativa e rinnovo ancora i ringraziamenti per la partecipazione. |